L’azienda agricola Francesca Stajano conduce terreni ulivetati, siti in provincia di Lecce e dislocati negli agri di Alezio, Gallipoli, Melissano e Nardò, per una estensione di circa Ha. 50 su cui insistono circa 7.000 alberi di olivo; il tutto nell’ambito di una plurisecolare tradizione familiare di dedizione all’agricoltura ed in particolare alla produzione di olio e di vino.
L’olio che oggi si produce – confezionato in bottiglie ed in lattine – proviene da una attenta scelta delle olive prodotte, prevalentemente di varietà “oliarola” e “cellina”.
Per la memoria familiare i siti più significativi sono quelli di Melissano che, per ascendenza paterna, risalgono e fanno parte del vasto patrimonio terriero appartenuto alla famiglia Briganti di Gallipoli, ricco di impianti ordinati a vigneti ed uliveti pregiati, e quelli di Alezio dove vi è il centro aziendale ubicato in un antico caseggiato, la cui attuale struttura risale al’700 e contiene (risalenti a quell’epoca) un frantoio (trappeto) semi-ipogeo con una macina ad una pietra (vedi foto in calce); vi è pure una grande cisterna rivestita in mattoni per la conservazione dell’olio (successivamente abbandonata e sostituita, nell’800, da capaci “pile” in pietra “leccese”); di fine ‘800 è il “palmento” (ampie vasche in pietra “leccese” per pigiare l’uva e raccogliervi il mosto).
A ragione si ritiene che, ove oggi è sito l’antico caseggiato descritto e nei suoi dintorni, esistevano insediamenti molto più remoti, di epoca alto-medievale e forse preistorica, dati i ritrovamenti ed i reperti significativi., da sempre esistenti o casualmente venuti alla luce e la posizione topografica, nell’entroterra gallipolino (circa sei chilometri da Gallipoli), in un punto di confluenza di antichissime strade che, non è da escludere, abbiano origini messapiche (non sono lontane le vestigia di quell’epoca: in Alezio vi è una necropoli ed un museo messapico).
In particolare, nei dintorni del fabbricato, sono state rinvenute, ai primi del’900, diverse macine in pietra che per le loro dimensioni hanno fatto ritenere che fossero utilizzate per lo sfarinamento di cereali, leguminose e simili, piuttosto che per la frangitura delle olive.
Questo, insieme ad altri indizi (querceti superstiti sino alla metà del secolo scorso delimitavano i terreni della tenuta, alberi di ulivo tuttora esistenti anch’essi millenari), ha fatto pensare che il sito, non solo sia stato da sempre oggetto di insediamenti umani e di ampie coltivazioni, ma che abbia anche costituito un luogo in cui si facevano convergere i prodotti della terra per essere misurati, variamente trattati (trasformati, stivati, confezionati per la commercializzazione) per poi essere trasferiti al porto di Gallipoli che, per traffico di merci, almeno sino a fine dell’800, rivaleggiava per importanza con i maggiori porti italiani.
Avvalora quanto si diceva, sulla rilevanza del posto nei tempi antichi, la presenza, a pochi metri di distanza, (inglobata in un fabbricato che fronteggia quello aziendale), di una grotta (ma probabilmente si tratta di quella più esterna) in cui si venerava S. Lucia che conferma la presenza di antichi insediamenti umani.
In questo contesto di pregio storico, contornato da olivi secolari e da altri di recente impianto, si trova il nostro agriturismo adatto per chi voglia d’estate godere di un ambiente rurale nella tranquilla campagna salentina.
La felice posizione dell’ agriturismo consente di raggiungere Gallipoli ed i suoi dintorni in 10 minuti e di immettersi sia sulla superstrada per Lecce, sia sulla statale per raggiungere Ugento, Santa Maria di Leuca, Santa Cesarea Terme, Castro, Tricase, Otranto, facendo il periplo del basso Salento.
Quando non erano state ancora inventate trebbie e mietitrebbie, era l’aia il luogo in cui le granaglie venivano ripulite dalla paglia e dalle spighe e le leguminose dalle piante e dai baccelli.
Il metodo primitivo consisteva nel disporre, una volta ben disseccate, le fascine di granaglie o le piante di legumi in cerchio sull’aia e quindi una schiera di donne con bastoni le battevano sino alla separazione del frutto dal resto. Dopo di che con setacci di vario calibro ed anche con l’aiuto del vento, il prodotto depurato da ogni residuo veniva raccolto in sacchi e portato a destinazione.
Quando i quantitativi erano notevoli, però, si ricorreva alla “pesatura”: disposte le granaglie o le leguminose sull’aia, si faceva girare un cavallo o un mulo, che trainava la “pisara” cioè un pezzo di tufo appositamente sagomato che beccheggiando svolgeva il lavoro dei bastoni. Poi, negli anni 20-30 del secolo scorso, sulle aie comparvero le “ventilatrici”, macchine fornite di setacci e pale, che, azionate da una manovella, mettevano in movimento setacci e pale ventilatrici.
L’agrumeto, un tempo esistente a fianco del complesso aziendale in Alezio, durante l’estate, come tutti gli altri della zona, richiedeva di venire irrigato. Data la povertà di acqua, si provvedeva con una serie di pozzi collegati da gallerie sotterranee convergenti sul pozzo centrale al quale man mano che l’acqua scendeva di livello affluiva quella degli altri pozzi. Sul pozzo centrale, che costituiva l’ Ingegna, era costruita una rotonda con macchinari per il sollevamento dell’acqua (“noria”) azionati da un cavallo. A fianco della rotonda c’era una grande vasca per l’accumolo dell’acqua: una volta riempita, l’acqua veniva distribuita nell’agrumeto attraverso una rete di canali in pietra.
Era la sala di pigiatura (a piedi nudi) delle uve da vino.
L’uva che arrivava in tini veniva scaricata e pigiata su un palchetto accanto alla vasca di fermentazione del mosto o su una madia di legno a fascioni situata sulla vasca di fermentazione, la madia scorreva su travi di legno a livello dei bordi della vasca.
Per agevolare la fermentazione, venivano usati gli “affondatori”, dei paletti in legno che terminavano con tre alette, per mandare giù i raspi e le bucce affioranti.
Terminata la fermentazione, il mosto, che finiva in un pozzetto collegato con la vasca, veniva imbottato. Le botti erano di castagno o di rovere.
E’ il nome del frantoio oleario, suoi elementi:
– macina, inizialmente ad una pietra, poi a due o tre pietre, per ridurre le olive in pasta.
– madia, dove si riversava la pasta e si riempivano i “fiscoli”;
– fiscoli, contenitori cavi in di fibra di cocco e di giunco;
– torchi in legno e poi in ferro dove si impilavano i fiscoli ripieni di pasta di olive per la spremitura;
– tine, in cui fluiva tutto ciò che veniva spremuto. Si doveva aspettare che l’olio affiorasse sulla parte acquosa (“sentina”) per essere raccolto col “botto” (un brocco di latta, basso e largo);
– mappo (piattello di latta incavata) per raccogliere le ultime gocce di olio affiorante;
– “pile”, grandi vasche in monoblocco di pietra leccese dove l’olio veniva stivato per essere messo in commercio;
– “ozze”, grandi orci in creta in cui l’olio veniva conservato per gli usi domestici, riposte in cantine sotterranee dove la temperatura si mantiene fresca e costante, evitando così sia l’ossidazione che il congelamento .
Nel trappeto agiva una “ciurma” al comando di un “nocchero”, in dialetto “nnachiru”. Il personale, mai locale, rimaneva per mesi, notte e giorno, chiuso nel trappeto, proprio come su un bastimento.